ABBIAMO SEMPRE VISSUTO NEL CASTELLO

Mi chiamo Mary Katherine Blackwoow. Ho diciott’anni
e abito con mia sorella Costance. Ho sempre
pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere
lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della
stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare.
Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni
sono mia sorella Costance, Riccardo Cuor di Leone
e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri
della mia famiglia sono tutti morti.

Sincera, io dopo aver letto un incipit del genere, mi sono commossa e ho sentito il bisogno di leggerlo un’altra e un’altra volta ancora, per assaporarlo e riprovare quel brivido iniziale.
Direi che con un inizio del genere ci si può aspettare solo grandi cose, e così è stato.
Abbiamo sempre vissuto nel castello è un’opera di Shirley Jackson, autrice di L’Incubo di Hill House (ho scritto un articolo al riguardo), libro molto più famoso, geniale; ma col cuore in mano mi sento di dichiarare che questa lettura è la migliore che abbia scritto.
Stiamo parlando di circa 189 pagine, niente di troppo impegnativo, ma la scrittura dell’autrice ha il potere di rapirti e di non lasciarti andare fino alla fine.


Il libro, Abbiamo sempre vissuto nel castello, è raccontato in prima persona da Mary Katherine, unica superstite della famiglia Blackwood, assieme alla sorella Costance e allo zio Julian, invalido. Già dalle prime pagine si capisce che Merricat (soprannome della protagonista) tende a distorcere la realtà, anche se porta a termine tutti i compiti per la casa, ed è l’unica a dirigersi in paese per le commissioni come spesa e libri. Odia i paesani e loro odiano lei; sono convinti che sia stata Costance ad aver avvelenati la famiglia Blackwood 6 anni prima, nascondendo l’arsenico nello zucchero (Costance non mangia zucchero, lo zio Julian pochissimo e Mary Katherine era in castigo in camera sua quel giorno) e hanno scelto la via dello scherno e della cattiveria come metodo di protezione.
Il suo squilibrio mentale lo si nota soprattutto nei discorsi, una buona parte con il suo gatto Jonas:

[…] avevo sotterrato uno a uno tutti i miei denti da latte man mano che cadevano, e forse un giorno da quei dentini sarebbero nati dei draghi. […]

Per quanto possa essere delirante, non è magnifica questa frase? Sono dell’opinione che Shirley Jackson abbia dato il massimo con questo libro. Ma non divaghiamo.

Le due ragazze e lo zio vivo nel maniero di famiglia, dove sembra che il tempo si sia fermato a quel pranzo dove quasi tutti i componenti sono stati avvelenati. Lo pulisco come un santuario senza muovere nulla dal suo posto. Costance cura l’orto e si prodiga in cucina, Merricat controlla i cancelli che circondano la proprietà e i suoi tesori sepolti un po’ qua, un po’ di la, ognuno con uno scopo preciso: il libricino del padre, inchiodato a un albero, protegge la casa.
Questa loro quiete però non durerà a lungo: l’arrivo del cugino Charles scombussolerà le loro vite. Lui si propone come aiuto per superare il trauma, far integrare nuovamente Connie nella società, dalla quale si era estraniata dopo il lutto, portare zio Julian in un centro dove medici lo avrebbero potuto seguire in qualsiasi momento.
Ma diversamente da Constance, Merricat annusa l’imbroglio e il vero motivo della sua presenza.

DENTRO ALLA STORIA, UN PO’ PIÙ IN FONDO

Anche in questa opera Shirley Jackson fa un uso della tensione narrativa, dell’utilizzo del tempo, magistrale. Non ci sono mostri in agguato, vampiri pronti ad attaccare, ma solo tensione psicologica con il potere di mantenere il lettore attaccato alle pagine con un’ansia e una tensione costante. Attraverso la scrittura della Jackson, si percepisce il male dietro a ogni semplice gesto, oggetto, edificio. Anche in questa opera, il maniero ha un ruolo fondamentale, l’ambientazione non è solo una semplice scenografia, ma è parte integrante della storia, la sua presenza è necessaria quanto quella dei personaggi e le sue mutazioni seguono il flusso degli eventi in concomitanza con quello delle ragazze.

La frase che le ha dedicato Stephen King riassume, in poche parole, l’essenza di questo libro:

“A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce”

Quanta verità in queste parole.

Abbiamo sempre vissuto nel castello può entrare nel genere gotico, viste le ambientazioni cupe e misteriose, anche se io lo vedo di più nel genere horror, di quelli fini in cui non c’è bisogno di colpi di scena o spargimenti di sangue alla Ash vs Evil Death, ma pura e semplice tensione psicologia: il male non ha una forma né colore, ma si insinua ovunque.

Un’altra meravigliosa caratteristica di questo libro è il fatto che non è dato sapere il tempo e il luogo della narrazione. Il lettore, in base ai modi di fare, alle tecnologie presenti, può farsi un’idea, ma non è mai confermata dall’autrice.

Ho letto alcune recensioni in cui viene presentata come un’opera dalle aspettative troppo alte per quello che è. Non credete a quelle parole, Abbiamo sempre vissuto nel castello è tutto questo e molto di più.

La non presenza di scene macabre e spaventose, ma la costante tensione che alleggia tra le parole rende Shirley Jackson una scrittrice con la S maiuscola, sommiamo questo fatto inconfutabile alla curiosità di sapere chi ha avvelenato i Blackwood, perché Costance è stata liberata da tutte le accuse. Quindi chi ha potuto fare un gesto così terribile?

«Una famiglia raccolta intorno al desco per la cena» disse zio Julian, carezzando le parole. «Senza sospettare che sarebbe stata l’ultima».
«Arsenico nello zucchero» disse rapita Mrs. Wright, che ormai aveva perso ogni pudore.
«Io quello zucchero l’ho usato» la redarguì zio Julian agitando il dito. «L’ho usato eccome, sui mirtilli. Per mia fortuna» e qui accennò un sorriso «è intervenuto il fato. Quel giorno esso ha inesorabilmente guidato alcuni fra le braccia della morte. Alcuni di noi, innocenti e senza alcun sospetto, hanno fatto, senza volerlo, quell’estremo passo verso l’oblio. Altri hanno usato pochissimo zucchero».

L’AUTRICE

Shirley Jackson naque a Los Angeles nel 1916 ed è definita una scrittrice di rilievo nel genere horror, di quello fine e tagliente.
Non ebbe un’infanzia facile, definita un “aborto mancato” dalla madre. Dovette abbandonare gli studi per problemi di depressione, per poi riuscire a laurearsi in giornalismo. Già a dodici anni vinse il suo primo premio letterario.
Sposata con il critico letterario Stanley Hyman, ampliarono la famiglia con quattro figlie. L’atmosfera in casa era sempre allegra, anche se i ripetuti tradimenti del marito continuarono a mettere in dubbio la sua figura di donna.
La sua vita si alterna tra alti e bassi, con forti disturbi mentali placati dall’abuso di alcool e tranquillanti, fino a spegnersi a soli quarantotto anni per un’insufficienza cardiaca.

I fantasmi che si portava dietro li rinchiude nei suoi libri e tutte le sue eroine riflettono l’ombra della sua vita.